L’amicizia con giorgio celli
Tornavamo in treno da Bologna. Era un pomeriggio di febbraio, forse marzo. In quella stagione fa sera ancora presto e il sole stava già tramontando quando passammo da Isola della Scala. Là, a una distanza che solo in pianura sembra non esistere, c’era Saccovener, un’antica corte sperduta nella bassa veronese, immobile, “là sul confine della sera”, come dice Guccini. Dal treno sembrava che la casa fosse ferma e che noi, con il resto del mondo, le girassimo attorno. Nella bassa gli alberi in quella stagione sono tutti senza foglie e mostrano nudi i loro rami tortuosi, come solo la vita a volte sa esserlo. Ma sono leggeri, trasparenti. Guardando il paesaggio quasi non ti accorgi della loro presenza, della loro vita.
Era il nostro quarto convegno e visti i successi degli anni precedenti, quell’anno, la lista dei relatori papabili era davvero lunghissima e, soprattutto, annoverava illustri docenti. Stava al Professore decidere la difficile potatura. Con l’orgoglio del buon lavoro fatto e con la certezza che il Professore avrebbe fatto le scelte giuste, siamo partiti quel mattino freddo e umido dalla stazione di Verona.
Destinazione Bologna, casa del Professor Giorgio Celli.
Dal treno sembrava che la casa fosse ferma e che noi, con il resto del mondo, le girassimo attorno.
Come di consueto, con il Professore, siamo andati a pranzo in quel ristorante di cui non ricordo il nome che si trova in via Mascarella, là, dove si mangia un piatto unico e puoi scegliere se a base di carne o di pesce. Come sempre, prima di mangiare, abbiamo presentato la situazione. Il Professore, scorrendo quella lista, con un tratto di penna deciso cancellò alcuni nomi e poi, in alto, scrisse il mio nome: Romano Sparapan.
Lì per lì non capii e pensai che questo suo gesto fosse come a indicare una pratica, una sorta di titolo, così, giusto per identificare quella lista. Il Professore capì e, con un tono che non ammetteva possibilità di replica, mi disse: tu farai parte dei relatori!
Io balbettai qualcosa. Inutilmente. Quello che mi colpì, non fu tanto la paura di parlare in pubblico, visto che l’avevo già fatto qualche volta, ma l’idea che il Professore avesse cancellato relatori di livello nazionale e oltre per far posto a me. Non credevo di meritare tanto onore. C’è da dire che questa scelta avvenne dopo quattro anni che frequentavo il Professore e quindi non potevo pensare che fosse frutto di un azzardo. Lui aveva pensato proprio a me!
Dentro quel treno del ritorno, che sferragliava nella pianura padana, guardavo l’imbrunire fuori dal finestrino e mille pensieri mi tormentavano e inquietavano. Saccovener: io sono nato là, in quella corte sperduta nella bassa veronese. Il mio centro del mondo. Là ci sono le mie radici, là ho vissuto la mia infanzia.
La mia vita, là, era in simbiosi con tutti gli animali, ma era indivisibile da Diana, una setter inglese, Bibi un meticcetto tutto pelo con grosse macchie bianche e nere, Lila, altra meticcetta a pelo raso nero, con il musetto appuntito e con due macchie color nocciola a disegnar due sopracciglia che le davano un certo tono, e poi Tommaso, altro meticcio in tutto uguale a Lila solo un po’ più grosso. Questi i miei compagni; con loro giocavo tutto il giorno nelle praterie del mio west e solo all’imbrunire, quando la voce lontana della mia nonna mi chiamava, tornavo verso quella casa, che si trovava là, sul confine della sera, proprio come la vedevo in quel momento dal finestrino di quel treno.
Da quel mondo partii bambino, all’età di sette-otto anni e fui precipitato nella periferia industriale di Verona. L’impatto non si può dire che fu dei più felici, non c’erano più le mie praterie, non c’erano più i miei cani a farmi da compagni.
C’era un mondo che non conoscevo. I bambini parlavano di cose che nemmeno immaginavo. Le immondizie da me non esistevano. Fingevo di sapere cosa fossero, ma agli altri bambini fu evidente la mia diversità. Si sa quanto i bambini, nella loro ingenuità, sappiano essere cattivi. A me non fu perdonato di non conoscere quel mondo e fui escluso. Tanti anni fa, partii dal mio mondo, da quella casa sul confine della sera, superai le colonne d’Ercole e mi ritrovai escluso.Ora, dopo tanti anni e tanto lottare, stavo ripercorrendo la stessa strada, ma stavolta lo facevo da scelto. Scelto dal “mio” Professore.
Mentre pensavo questo, dondolato dal vagone, un rivolo di lacrime mi solcò le guance. Poi improvvisamente tornai in me, consapevole che c’era chi, seduto di fronte a me, mi stava guardando. Ma, quella persona, con un sorriso, mi fece capire che aveva intuito.
Anche questo è stato il Professor Giorgio Celli. Sarebbe stato facile per lui puntare su nomi altisonanti, invece ha voluto investire, ha accettato il rischio.
Il Professore non si è mai adagiato sugli allori: per lui la vita era sempre davanti, mai dietro.”
Romano Sparapan
Il Professore non si è mai adagiato sugli allori: per lui la vita era sempre davanti, mai dietro.